Il suono celeste

Stavo sdraiato in camera mia già da diverse ore quando il timer dello stereo si accese. Avevo preso l’abitudine di destarmi con la musica dei Depeche Mode da un mese circa: trovavo che svegliarmi ascoltando la loro musica non solo mi caricasse di energia e di voglia di affrontare la giornata, ma mi rendesse anche la vita stessa più sopportabile e la mia idea sul mondo più ottimistica. È risaputo, poi, che quando si crede profondamente in qualcosa, quella cosa È la realtà.

Naturalmente, come tutte le mattine, rimasi sdraiato anche se la musica era cominciata, pronto ad alzarmi cinque minuti più tardi, all’inizio della seconda canzone.

Ma tutto questo non avvenne: improvvisamente, mentre ero ad occhi chiusi, una cometa mi passò da parte a parte, in uno spazio nero-notte, e le esplosioni al mio interno che essa creò, mi rimasero impresse fino a quando notai, in lontananza, di fronte a me, una palla di luce che si avvicinava a velocità impressionante. Mi attraversò il corpo contratto dall’emozione nello stesso istante che un’altra scappò alla mia sinistra formando una diagonale che partiva dall’alto del mio cervello, a destra, fino al mio fianco sinistro, dopodiché esplose; una marea di piccole stelle, scintille che saltavano al ritmo della musica e traiettorie di queste, insieme ad una valanga di vorticose costellazioni, mi si rovesciò dentro e, insieme, cominciarono a girare vertiginosamente dentro di me, costringendomi a seguire quell’illogica struttura simmetrica per non esserne travolto o spazzato via. Lo stomaco mi si contrasse dall’emozione.

Poi ecco che si avvicinò un suono: una vibrazione cupa, profonda; e nello stesso tempo si affacciò in me la netta sensazione che si stava avvicinando qualcosa, una qualche cosa di gigantesco, ma indistinto. Una astronave!

Lenta mi comparve alle spalle emettendo quel vibrante ronzio accompagnato da suoni ritmici. Cosa fosse non so. Ma tutto si calmò – o semplicemente mi ci abituai. Le sue mille luci si specchiarono sopra il leggero velo dei miei occhi. E vidi!

Un essere discese e mi “trasmise” ciò che stava vedendo, ciò che stava sentendo, ciò che stava vivendo. Ed io lo vissi con lui: boschi ricchi di vegetazione; rocce e tronchi d’albero muschiati; un ruscello che scendeva e al cui interno si potevano vedere alcune stupende e forti trote dorate che, guizzanti ma tranquille, risalivano la corrente; la luce del sole che, fra le folte frasche in alto, simulava la discesa di angeli celestiali; e gli odori, e la musica degli uccelli e ogni più piccola cosa, aveva il suo posto, la sua importanza, il suo valore, al pari di tutto.

Mai nessun’artista poté né potrà avvicinarsi ad una creazione così perfetta, pensai (o forse l’essere pensò per me).

Il tutto poi si abbassò per lasciare spazio ad una luce sempre più fastidiosa, che proveniva da dietro una collinetta. Sopra di essa solo qualche raro arbusto lottava per vivere ed, intorno, l’erba era rada, secca, malata. Dietro di essa una città piena di luci, di fretta, di caos, d’inquietudine, di solitudine, di rassegnazione. Case sature di bugie, di violenza, di confusione; per le strade e nei locali: gente accalcata e sudata, sporcizia, odio. Quanto odio! E quanti che gridavano: “Libertà!!! Giustizia!!!”, mentre la negavano ad altri.

Non esistevano stelle nella notte rischiarata da tutte quelle luci.

Sentii dentro la tristezza dell’essere, la sua solitudine, la sua estraneità da tutto questo. Sembrava che la sua stessa tristezza prendesse forma di malattia, in lui; lo faceva sembrare più vecchio.

Non poteva far altro che aspettare il buio, l’oscurità. E così fece: aspettava… e intanto guardava. Ed io con lui vedevo, con lui piangevo, con lui aspettavo. Che cosa?

Il paesaggio cambiò di nuovo: le luci si affievolirono fino al punto che fui circondato dal vuoto; i rumori si fecero sempre più lontani tanto da farmi percepire il niente assoluto. Non riuscii a udire più neppure il mio respiro, il mio battito cardiaco. Non riuscii a percepire neppure la terra sotto i miei piedi, né le mie dita, neppure il mio corpo. Ebbi paura di morire, di essere già morto. Ma ragionavo, mi sentivo esistere, per Dio!

Poi un fascio di luce mi si aprì davanti ed io lo seguii senza movimento apparente. Una sala, o una piazza vuota, mi accolse ad una sua estremità. Al centro di essa vi era un pozzo. Un pozzo con accanto il mio compagno di prima; ma più alto, più magro, con una faccia più femminile che maschile, bellissimo, senza età. Pareva l’eternità. Lo era?

Intorno a noi non un rumore disturbava l’armonia, l’oblio e allo stesso tempo l’attesa di quel momento. Tutto era in silenzio.

Poi sul suo volto vidi una lacrima e, come se questa fosse un gesto, mi sentii chiamato. Ma la paura del nuovo, che una mia decisione potesse influenzare il corso di quella insolita tranquillità, mi trattenne. Nella sua mano solo allora notai una chiave d’oro, in stile antico. L’essere guardò la chiave, poi me, quindi il pozzo accanto a lui. Tutto questo molto lentamente. Poi lasciò cadere la chiave nel pozzo.

Silenzio…

Quindi un suono metallico, lontano; e poi un altro, ancora più lontano… e un altro ancora. Era la chiave che urtava contro le pareti del pozzo. Percepivo tutto questo sotto forma di vibrazioni sempre più distanti, sempre più profonde, nell’oscurità di quel pozzo senza fine.

Restai fermo fino a che mi accorsi che non vi era più alcuna vibrazione, né pozzo, né essere. Niente.

Quando mi alzai lo stereo si era spento da solo, chissà da quanto tempo. Mi guardai un po’ intorno -sembrava tutto cambiato, più luminoso, più “vero”- quindi uscii di casa. Era una bellissima giornata. Il sole rischiarava tutta la strada e l’aria era carica di presagi e di frizzante vitalità. Anch’io, come essa, sembravo carico di elettricità. Nella strada passava qualche macchina, come al solito, ma vi era qualcosa di diverso, di meraviglioso, di magico. Ero cambiato io.

Un cane si fermò accanto a me e mi abbaiò guardandomi, poi si voltò e se ne andò per la sua strada di barbone.

Un gruppo di ragazzotti mi corse accanto quasi travolgendomi, senza neppure vedermi. Solo un bambino più piccolo degli altri si fermò d’improvviso davanti a me e mi guardò dal basso con aria sognante e interrogativa, ma venne subito strattonato e portato via dalla madre che notava solo disobbedienza; lo salutai e lui mi rispose sorridendomi mentre la sua madre-padrona lo trascinava in casa.

Guardai il cielo: era azzurro e nessuna nuvola disturbava lo spazio immenso sopra di me. Alcune rondini volavano in alto, per divertimento o a caccia di cibo, gioiose e veloci. Un colombo, sopra un cornicione, sbatté le ali come per sgranchirle prima del volo. Anch’io, come lui, mi sgranchii le braccia e la schiena, respirai a pieni polmoni, quindi aprii le ali e mi diressi in alto, dove mi portava il soffio di quella tiepida brezza.

Era una stupenda giornata per volare via.


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